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Gruppo: Rage

Album: End Of All Days

Label: Gun

Anno: 1997

Nazione: Germania

Genere: Heavy Metal


Review a cura di Daniele Cecchini.

La fine di tutti i giorni. Titolo fra i più felici che si potessero scegliere, per un album che, per i Rage, segna il termine del periodo più roseo della loro carriera di musicisti. Nonostante la band di Peavy e soci stia vivendo una nuova giovinezza con le ultime due studio releases, date alla luce fra i 2003 ed il 2006, è innegabile ( fu, in tempi non sospetti, lo stesso frontman tedesco ad ammetterlo ) come quello che va dal 1995 al 1996, sia stato il biennio che abbia segnato in maniera indelebile la Via artistica di questi teutonici. A seguito, infatti, del grande successo ottenuto con “Black In Mind” e con la riuscita collaborazione con l’ Orchestra Sinfonica di Praga ( dando vita, per inciso, ad uno dei più riusciti connubi fra heavy metal e musica classica che siano mai stati realizzati: “Lingua Mortis” ), i Rage, mai paghi, decidono di stupire ancora i fans, trovando la cosiddetta “quadratura del cerchio” realizzando il punto più alto della loro discografia. Mi sia consentita questa affermazione anche da coloro che, maggiormente legati ad alcuni degli altri grandi successi della band, storceranno il naso di fronte a cotal ardimentosa ( quanto sincera ) constatazione. Arrivati però al dodicesimo anno d’esperienza e con diversi split di chitarristi e batteristi vari alle spalle, i nostri, forti di una line up consolidata da 3 anni di collaborazioni, si concessero il lusso di un disco più maturo e ragionato delle precedenti realizzazioni in studio, unendo con intelligenza e sapiente dovizia, quelle caratteristiche di violenza e velocità che da sempre sono state il cavallo di battaglia del combo germanico, ad una avveduta dose di musicalità ed armonia. Dosando insomma, laddove richiesto, a turno il bastone o la carota.

Il risultato, manco a dirlo, fu strepitoso. Già a cominciare dalla opener, “Under Control”, i Rage iniziano a fare sul serio, presentandosi al loro pubblico con un riffing che dire tagliente è un eufemismo. Senza alcun dubbio la miglior traccia d’esordio mai proposta dal Peavy & Co. In “Higher Than The Sky” quanto detto in precedenza viene non solo evidenziato, ma esaltato all’ ennesima potenza, grazie ad una track che, per gli amanti di questa band non ha bisogno di presentazioni ( essendo, tra l’altro, fra i pezzi più acclamati dal pubblico nelle esibizioni della band in sede live ), e che per tutti gli altri è semplicemente tutta da scoprire. Per chi, eventualmente, ancora non la conoscesse, dico che è impossibile, ascoltandola, non essere trasportati da un irrefrenabile voglia di alzare le mani al cielo. Bellissimo poi, il successivo “Deep in Blackest Hole”, del quale mi piace ricordare anche il gotico videoclip ad esso dedicato: ottimo interludio al più grande capolavoro musicale mai composto dal buon Peavy. “Nome, nomen” come direbbero gli antichi, ed infatti la title track è quanto di meglio si possa desiderare per esprimere, in sintesi, l’essenza di questo disco ed oserei dire del Rage-sound tutto. Dopo un excursus composto da altri nove pezzi, fra molti spunti interessanti e qualche pecca, inesorabilmente giungiamo all’ altra grande gemma di questo album: “Fading Hours”. Si tratta, infatti, di una ballad dai noti melodici e possenti: compendio di dolcezza e struggente malinconia. La vena dei Rage, in questa poesia ( perché siamo davanti ad un opera di tal genere ) si sublima completamente. Sottofondo perfetto, condito da giri di basso impeccabilmente eseguiti da Peavy in persona, ed interpretazione vocale ineccepibile, fanno di “Fading Hours” la miglior composizione melodica della carriera di “herr Peter” e dei suoi pards. Superiore per me anche ad “All This Time” la quale viene da molti inserita una spanna più in alto negli indici di gradimento. Non li biasimo, certo, ma la magia che ogni volta mi trasmette l’ ascolto di “Fading Hours” è fino ad oggi inarrivabile. Concludo questa mia analisi cercando, per quanto mi sia possibile, di evitare banalità riguardo ad un disco che, senza mezzi termini, ha rappresentato un punto fermo della mia adolescenza e che quindi, come sono sicuro immaginiate, possiede per me un profondo significato affettivo, piuttosto che meramente musicale e di collezionismo. Non vi chiedo dunque di considerare questo “End of All Days” alla mia stessa stregua, ma una cosa voglio dirla lo stesso. Ascoltate questo disco: vi conquisterà senza ombra di dubbio. Capolavoro in pieno stile anni 90, per certi versi innovatore e luce tracciante di un genere troppo spesso confuso o peggio ancora imbastardito: Power Metal allo stato puro.
Daniele Cecchini

Data pubblicazione: 01/01/2008