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Gruppo: Elixir
Album: The Son Of Odin
Label: Autoprodotto
Anno: 1986
Nazione: Heavy Metal
Genere: UK



Forti di una positiva recensione di Ronnie James Dio apparsa su Kerrang riguardo ad un loro singolo, gli Elixir autoproducono e pubblicano il loro debutto nel 1986, quando la NWOBHM, loro genere di riferimento, è già spenta da tempo e sommersa dalle nuove diverse diramazioni che il movimento HM vedeva nascere e crescere. Malgrado questa tardività temporale, gli Elixir si presentano ai metalheads con un lavoro magnifico, maturo, profondamente intriso di tendenze epicheggianti e oscure.I cinque cavalieri del conservatorismo metallico inglese sono Paul Taylor al microfono, Phil Denton e Norman Gordon alle asce, Kevin Dobbs al basso e Nigel Dobbs dietro le pelli.

La messa è inaugurata dal riff pesante e cadenzato di The Star Of Beshaan, subito pronto ad evocare arcaiche realtà di conoscenze iniziatiche nascoste tra i cupi boschi albionici. Song molto coinvolgente, sorretta da una ritmica rissosa e da un cantato trascinante spezzato da un assolo fulminante. Pandora's Box giunge come un legato dalle lontane lande greche con chiare intenzioni: una colata di HM fiero e marziale, chitarre sincronizzate alla creazione di un canto sprezzante, e un chorus sofferto ma vincente. Un riff nervoso ci conduce lungo le sonorità di Hold High The Flame, ossessiva e galoppante song dal ritmo serrato e claustrofobico, che lascia intravedere l’ombra minacciosa di macabre sfere di fuoco lanciate dalla terroristica sezione ritmica di Children Of Tomorrow, dotata di un chorus energico ed efficace come pochi altri, in un contesto dove la forza brutale delle chitarre tende a prevalere sulle facili melodie. Degna di menzione la prestazione del vocalist Paul Taylor, davvero un lavoro sopra le righe. Trial By Fire si presenta con un’introduzione caotica, apocalittica, e l’atmosfera malsana di un arrangiamento disordinato non lascia sperare in un raggio di luce, resa ancora più remota da un mutevole riff spezzato; la furia irrequieta del caos evidentemente regna anche nello spazio se Starflight non abbassa minimamente la tensione di un songwriting quasi febbricitante ed eccitato, specie nei riff e nell’assolo. Sembra giungere da remote scorribande oceaniche Dead Man's Gold, con un Paul Taylor impegnato a rendere al meglio l’ambiente sospeso della narrata leggenda corsara, dove a brillare, più che vecchi tesori perduti, è il breve ma fascinoso assolo. Treachery (ride Like The Wind) è la traccia più bellicosa, sostenuta da una ritmica violenta e precisa e condotta da un riff truculento. Un’aria quasi sepolcrale introduce l’inquieta ed epica title-track: la ritmica è di una cadenza spietata e soffocante, benché nervosa, e il riff è lanciato come una lama fendente su lentissime coordinate ossianiche che scortano l’evocativa e passionale prestazione del singer, prima che Nigel Dobbs metta fine all’insana celebrazione con il suo ultimo violento passo.

Nella ristampa della Cult Metal Records del 2002 sono state aggiunte tre bonus track che nulla tolgono o sommano alla sostanza di questa perla perduta tra le memorie della tardiva scena inglese, un fiore del male che è riuscito ad espandere i propri sanguinari sentori contro la sentenza di un tempo che gli è stato nemico.

Marco Priulla
Data pubblicazione: 20/10/2006